Il digital manager cambia, si adatta, semplifica, vola.
Per ogni operazione c’è una procedura, e per ogni procedura c’è un’eccezione. Ma cosa accade se le eccezioni sono più numerose delle regole? Cosa succede quando le procedure devono necessariamente diventare sempre più intricate, così da far fronte a tutti i possibili casi specifici? Insomma: siamo davvero certi che un alto grado di complessità sia sempre e assolutamente necessario per far fronte agli imprevisti e ai pericoli? Siamo sicuri che questo sia un modo efficace per affrontare il cambiamento?
Cercando una soluzione al problema dei terremoti, l’architettura ci aiuta a trovare una risposta a questi interrogativi. Affinché un edificio resista ad un sisma, infatti, bisogna evitare di utilizzare materiali troppo duri o resistenti; al contrario, è necessario costruirlo in modo tale che la struttura possa deformarsi. Il segreto della resistenza agli urti non è la staticità, ma l’elasticità. Più una struttura è rigida, più facilmente rischierà di crollare a causa di un impatto improvviso.
Questo vale per i terremoti come per un qualsiasi cambiamento repentino che modifica (talvolta momentaneamente, altre volte in modo definitivo) il territorio in cui ci troviamo – e sul quale abbiamo costruito la struttura della nostra organizzazione.
Allo stesso modo, la tendenza a rendere complesse persino le operazioni più elementari priva le strutture sociali (ed aziendali) di quella flessibilità ormai fondamentale per la crescita collettiva e personale – è l’ingrediente essenziale di quella “resilienza” che spesso e volentieri resta soltanto un bella parola (o un bel tatuaggio).
Complicare le procedure, moltiplicare i flussi e aggrovigliare i casi specifici in cui una regola si applica o non si applica…sono tutte risposte al cambiamento che appesantiscono gli organismi sociali, impedendo a questi ultimi di adattarsi alle trasformazioni e costringendoli a subirle.
In questo contesto, il manager può interpretare 3 ruoli distinti.
Può abituarsi alla complessità. Può farci il callo, può sopravvivere. Può sperare di superare indenne ogni “terremoto” (che si chiami globalizzazione, e-commerce, e pandemia). Può vivere felice o contento finché qualcuno non volta pagina.
Può utilizzare questo incremento ossessivo-compulsivo di regole per nascondersi, per difendersi. Può celare la propria inadeguatezza dietro una pila di mansioni che lui e solo lui può svolgere. Può annoiarsi, può vivere nel suo angolino felice.
Oppure può dire no. Può rompere i c*glioni, può non stare fermo al suo posto, può schierarsi dalla parte dell’elasticità, dalla parte del cambiamento. Insomma, può diventare un manager digitale. Anche senza occuparsi di e-commerce o di IT. Questo perché il concetto di “digitale” ha sempre meno a che fare con i semplici strumenti o con i canali di comunicazione, mentre riguarda sempre di più l’approccio alla realtà, le interazioni tra gli individui e i modi in cui si organizzano le strutture sociali. “Digitale” è il nome del terremoto e dei suoi effetti, ma è allo stesso tempo il nome del materiali che resiste all’impatto, che si deforma, che si flette.
In altre parole “digitale” non è il dito che indica la luna, ma l’atto stesso di indicare. E oggi come oggi, il saggio è colui che non si limita a guardare , ma che agisce concretamente per allineare quella che fa e l’organizzazione alla quale appartiene a questo nuovo verso della storia. Una direzione che elimina il superfluo e che ripulisce le strutture da quegli elementi che ne impediscono il movimento.
Una direzione che non distingue tra norma ed eccezione, tra regola ed eccezione, ma che riprogetta i rapporti tra individui ed organizzazioni per renderli aperti, flessibili, adattabili – consapevole del fatto che “eterno” non è ciò che dura nel tempo, ma ciò che non ha tempo.
Per fare questo, una delle sfide dei manager di domani è in effetti quella della semplicità – e della semplificazione. Imparare a semplificare significa diventare capaci di distinguere il barocco dall’essenziale, consapevoli del fatto che “la vera professionalità consiste nel prendere qualcosa di complesso e renderlo molto più semplice – qualsiasi improvvisato è in grado di fare il contrario”.
In effetti, un ottimo esempio di questo approccio al management raccontato da Enrico Franzolin (CEO di UNOX) nel suo libro “Il potere della semplificazione” (da cui è tratta la citazione qui sopra).
In questo volume, l’autore racconta (attraverso esempi ed aneddoti tratti dalla sua esperienza imprenditoriale) in che modo una sana tensione alla semplificazione può effettivamente facilitare la vita dell’azienda e NELL’azienda. Profondamente ispirato dalla filosofia Lean, Franzolin sostiene che la complessità è nemica del miglioramento, in quanto rendere meno agili le organizzazioni – impedendo perciò di farle stare al passo con le innovazioni. Inoltre, all’aumentare della complessità aumenta la probabilità di errore, mentre si indebolisce – per i soggetti coinvolti – la possibilità di controllare il processo.
La soluzione di Franzolin è l’Inventive Simplification: questo approccio (di cui, in questo libro, vengono fotografate tutte le varie implicazioni) consiste sostanzialmente nell’eliminazione della complessità che appesantisce e rallenta le organizzazioni, utilizzando metodi e strumenti nuovi, creativi e decisamente fuori dagli schemi.
Ormai è chiaro che la sopravvivenza al cambiamento è legata alla capacità di sapersi adattare: essere flessibili significa ridurre la densità delle regole, dei flussi, dei processi. Significa semplificare – e gli strumenti per affrontare questa trasformazione, fortunatamente, sono alla portata di tutti.
Il cambiamento premierà che imparerà ad usarli – con buona pace dei burocrati dell’imprenditoria.
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Emanuele Caccamo
Comunicare, motivare, negoziare, decidere, gestire lo stress, chiedere e offrire un aiuto effettivo, saper essere positivi e felici nell’ordinario. Se pensate di poter fare tutto questo senza la presenza di legami forti, vi illudete.