Che i pessimi capi lo vogliano o no…
E’ un momento strano, sicuramente con una forte polarizzazione, e l’argomento clou riguarda la gentilezza.
Amiamo i bellissimi post su LinkedIN e le storie di eccellenza in cui si parla di Manager gentili, di leader che applicano ogni giorno quelle che, innanzitutto, dovrebbero essere buone maniere sempre, in qualsiasi campo della vita. Leader che dicono grazie, che stimolano, che ispirano, che hanno cura della salute – sì, anche quella mentale – dei loro team e che studiano, si formano e cercano ogni giorno di avere le migliori competenze per la gestione delle preziose risorse umane.
Ma nella realtà di tutti i giorni, quella in cui mettono le mani molt@ di noi, queste persone sono una piccolissima parte. Una piccola parte perché la maggior parte del sistema premia basandosi su altri KPI, che sicuramente non prendono in considerazione il livello di benessere di un team.
Mi interrogo su due punti sostanziali:
– perchè l’approccio gentile non è un valore riconosciuto universalmente?
– perchè i risultati di cert@ manager orrend@, sono riconosciuti dei buoni risultati?
Su questi temi, ho un punto di vista sicuramente pregiudicato dal mio essere una donna. E’ storia che la mia modalità di condurre un team sia stata spesso definita con aggettivi scorretti. Materna, dolce, comprensiva, sono definizioni errate di una modalità ben precisa, figlia di studi, di esperienza e di risultati, eppure ho spesso dovuto giustificare verso i miei capi, il mio modo di rapportarmi con le persone che lavorano con me. E non parlo solo di subalterni, ma anche di fornitori, clienti e capi stessi.
Ovviamente il patriarcato c’entra, come c’entra una visione del potere ancora puramente identificata in un machismo vicino alla mascolinità più tossica che possiamo riconoscere.
Un sistema che guarda con ammirazione all’arroganza, al prevaricare, all’autorità, e che porta uomini e donne che ne fanno parte a doversi spesso adeguare a questi sistemi.
Manager che sono stat@ spesso vittime del sistema stesso, ne ripropongono modelli e modalità, giustificandosi con nostalgici riferimenti al passato e forti dei risultati ottenuti.
Non ho le competenze per fare parallelismi politici, ma sappiamo tutt@ di cosa sto parlando.
Le “Grandi Dimissioni” sono un fenomeno che sta urlando forte il malessere comune, ma sono anche un indicatore di cosa cercano le persone e come intendono un buon impiego: la qualità del clima aziendale batte uno stipendio più alto per molt@.
I burnout ci piacciono solo in moto, per gli appassionati, per tutti gli altri, avere un crollo psicologico per via di un capo pessimo è qualcosa di cui faremmo tutt@ volentieri a meno.
Tornando alla gentilezza, nella mia modesta opinione posso solo portare ottimi e comprovati risultati: responsabilità, appartenenza, correttezza.
Non ho mai dovuto chiedere a qualcun@ dei miei team di rimanere un’ora in più in un momento critico, mi è stato proposto. Difficilmente ho ricevuto richieste di permessi o ferie in momenti di progetto particolare e, quando è successo, abbiamo organizzato insieme l’assenza.
Ho avuto davvero la famosa porta aperta nel mio ufficio ed è stata usata spesso. Ho spesso ricevuto il massimo dalle persone, con sincero e motivato impegno. Rarissimi i momenti in cui ho dovuto forzare.
Dal mio punto di vista, l’esperienza positiva mi porta a riproporre queste modalità in ogni ruolo e non nascondo che spesso mi sono trovata a dover dare delle spiegazioni sul mio operato. Con numeri e performance che mi davano ragione, il mio agire è stato considerato non autorevole. Confondendo autorevolezza con autoritarietà.
Ho assistito a urla, lanci di oggetti, mail aggressive, minacce e a tutta una serie di azioni che ho ritrovato ben descritte nell’ottimo “Il Pessimo Capo” di Domitilla Ferrari.
Persone a capo di aziende, a volte not@ ai più per i loro modi, a volte insospettabili, che hanno detto o fatto cose per me impensabili, a livello umano oltre che lavorativo.
Quindi il mio essere gentile, pacata, accogliente, è stato valutato un elemento di debolezza e non una risorsa da sfruttare. Con buona pace di autorevolezza e leadership.
Come ho già detto, queste persone si sentono autorizzate dai risultati, non hanno altri modi, probabilmente hanno anche paura che un cambiamento porterebbe danni ai risultati così ottenuti.
Cosa fare quindi? Come portare in queste aziende una nuova consapevolezza?
Ci è chiaro che tutto questo fa il pari con il recente caso di Elisabetta Franchi e con l’italianissima moda di dichiarare che il lavoro c’è ma in pochi hanno voglia di lavorare.
E guarda caso quando leggiamo o ascoltiamo le parole di questi imprenditori, traspare sempre chiaramente una tossicità nelle espressioni che mi lascia basita. Eppure certi concetti molto gravi vengono espressi con il candore di chi pensa di essere pienamente nel giusto.
A volte siamo schiavi del mercato, ma abbiamo comunque il dovere di fare qualcosa, di proteggere la scala gerarchica a partire dal basso. Iniziando quindi dal collega con meno potere e meno forza per opporsi, arrivando a fare squadra con altre aree aziendali per convertire chi ha il famoso coltello dalla parte del manico.
Io penso sia fattibile, io penso che un’azienda senza le sue persone è una scatola vuota e che un solo pessimo capo non può infettare un’intera realtà. Penso che ci sono dei dati oggettivi che dimostrano quanti soldi vengono buttati ogni volta che si perde un talento, che si incide sull’awareness dell’azienda con una cattiva nomea che non attira nuove risorse e rende sfittiche quelle esistenti.
La gentilezza cambierà il mondo del lavoro, un’azienda alla volta, che i pessimi capi lo vogliano o no.
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